lunedì 29 febbraio 2016


La banalità del male - Hannah Arendt - Ed. Feltrinelli

La banalità del male
 Libero commento ad un processo narrato da Hannah Arendt

 Ed. Feltrinelli



Quel che ora penso veramente è che il male non è mai radicale, ma soltanto estremo, e che non possegga né profondità né una dimensione demoniaca. Esso può invadere e devastare il mondo intero, perché si espande sulla sua superficie come un fungo. Esso sfida, come ho detto, il pensiero, perché il pensiero cerca di raggiungere la profondità, di andare alle radici, e nel momento in cui cerca il male, è frustrato perché non trova nulla. Questa è la sua banalità. Solo il bene è profondo e può essere radicale." (H. Arendt)


La Arendt, già autrice de "Le origini del totalitarismo," fu inviata di una testata giornalistica americana, il Newyorker, ove si era rifugiata durante il nazional-socialismo, a Gerusalemme, per riferire del processo ad Eichmann, su sua specifica e sentita richiesta per non aver potuto seguire il processo di Norimberga. I suoi articoli sollevarono significative e consistenti critiche da parte di tutti i ben pensanti che volevano soltanto assistere, come avranno appunto modo di assistere, alla condanna a morte dell'imputato, senza accettare la consistente rilevanza degli interessanti rilievi promossi dalla Arendt.
3.1) Dal punto di vista del diritto positivo i burocrati di Hitler non potranno mai essere condannati 
3.2) Il sistema nel suo complesso era congegnato e messo a punto dai generali era così frammentato da fare in modo che nessuno fosse cosciente del disegno complessivo,
3.3) L'ultima carica conseguita l'ottenne per essersi dimostrato "esperto di questioni ebraiche":
3.4) Prima dello sterminio diede vita ad accordo in base al quale erano gli stessi capi delle comunità ebraiche a selezionare gli ebrei migliori da avviare all'espatrio verso le fattorie in Palestina,
3.5) Il nazismo ha corrotto coscienze in Europa anche tra le vittime.
3.6) Eichmann disubbedì solo una volta agli ordini 
3.7) Gli scampati alle deportazioni rappresentavano circa il 20% della popolazione di Israele e tra questi tutti fecero a gara per essere accreditati come testimoni

Al termine di questa analisi, la Arendt, sembra quasi erigersi a difesa d'ufficio dell'imputato Eichmann e questo, in uno alle sue accuse di collaborazionismo ai capi delle comunità ebree fece, comprensibilmente, enorme scalpore. Eichmann non mente, è un burocrate, freddo esecutore di ordini superiore emanati da chi è stato acclamato a capo di un'intera nazione e pertanto non può che essergli superiore. La Arendt dichiarò a suo parere illegittimo il processo e l'impossibilità da parte di Israele di condannare Eichmann per crimini di guerra, suscitando un'evidente onda di dissenso anche da parte degli ebrei tedeschi che, come lei, erano dovuti fuggire lontano dalla Germania e che la accusavano di aver dimenticato che per pura fortuna ella era docente di famose università americane e non era finita morta di stenti in un lager. Ella invece additava doversi condannare quella forma di inumanità che aveva pervaso gli individui con il nazismo: <<Invece di pensare che orribili cose faccio al mio prossimo, gli assassini pensavano che orribili cose devo vedere nell'adempimento dei miei doveri>> e voleva salvare l'uomo nell'accezione di essere pensante dalla condanna di un sistema di  distruzione del pensiero e delle coscienze, a partire da chi del sistema era parte esecutiva. Nell'epilogo del libro, tutto da leggere, la Arendt, finalmente libera dall'onere di dover raccontare lo svolgimento del processo, dall'elenco dei testimoni intervenuti e del contenuto delle loro analisi e delle incoerenze intrise in esso, espone il suo pensiero con una lucida analisi che onora la scuola di Heiddeger, rendendo chiaro che ella risponde a quella formazione filosofica che non permette cedimenti per coinvolgimenti personali. E francamente convince anche in merito agli aspetti giuridici della vicenda. Probabilmente dovevano scorrere gli anni perché si potesse avere una giusta prospettiva storica dell'olocausto, ed, in seguito, del suo pensiero.
La vicenda, che ha suscitato grande interesse in me, probabilmente per l'amore di difendere l'indifendibile, e che mi era ignota, mi ha convinto che questi rilievi debbano essere patrimonio di un aspirante giurista e che siano di grande interesse culturale.



1) L'imputato da Buenos Aires venne tradotto a Gerusalemme, a mezzo di rapimento, per essere giudicato da un tribunale di uno stato ebraico che, all'epoca dei fatti, ancora non esisteva. In quanto cittadino tedesco e funzionario di Stato avrebbe avuto diritto ad essere estradato e giudicato in patria, come fu fatto per altri nella sua stessa situazione, ma la Germania non ne chiese mai l'estradizione. Tra i nazisti condannati in patria e gli istigatori tedeschi, compresi quelli che istigarono la deportazione in Ungheria, Eichmann pagherà con la pena di morte al cospetto di altri che furono condannati al carcere a vita o a dieci o cinque anni di carcere addirittura a seconda delle loro colpe e delle meritevoli azioni compiute contro il terzo Reich, ma solo all'epoca della sua disfatta. Per Eichmann vigeva la presunzione di colpevolezza e solo questo legittimava agli occhi del mondo il comportamento illegale di Israele che, a mezzo del rapimento, lo avevo tradotto in giudizio nel suo territorio. Eppure, il suo nome comparve soltanto una volta a seguito degli interrogatori dei responsabili dei vari capi di concentramento svolti dal giudice Musmanno e non risultò credibile che egli fosse l'ispiratore di Hitler, quanto, piuttosto che, credendolo morto, al processo di Norimberga avessero scaricato tutti le responsabilità su di lui. Risulta credibile, di converso che invece pagasse la sua notorietà in ambiente ebreo, per aver sempre trattato con i rappresentanti delle comunità ebraiche in nome del terzo Reich. Quel rapimento, compiuto in violazione del diritto internazionale, fu concluso con un accordo tra Israele e Argentina di dichiarare chiuso l'incidente e nessuna opposizione vi fu da parte di altri stati considerando Eichamnn apolide, un rifugiato in Argentina sotto falso nome, sebbene fosse cittadino tedesco. L'apolidia, che aveva dovuto forzosamente procurare agli ebrei per poi poter provvedere a "trasferirli" dalle loro città in altri territori, risultava ora fatale, proprio a lui, responsabile dell'ufficio IV-B-4;


2) Il tribunale è chiamato a giudicare chi ha agito legittimato dal diritto positivo vigente, in un determinato luogo ed in un determinato tempo, e in assenza di una norma da applicare in quanto nessun codice al mondo prevede e quindi punisce il crimine del quale viene accusato nella generica formula di "crimine contro l 'umanità", poiché mai in precedenza si era assistito ad una politica del genere, ma, si badi bene, da parte del regime di uno Stato sovrano.

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3) Lo stato di Israele coglie l'occasione per condannare il nazionalsocialismo, la leadership di Hitler e tutti crimini commessi a danno degli ebrei, in verità, processando un burocrate, ancorché efficiente esecutore degli ordini ricevuti, per azioni che non ha commesso, un soggetto che, pur avendo fatto di tutto per la sua carriera, non era riuscito a raggiungerne l'apice, come raccontava cercando comprensione; non già nella menzogna ma nella verità secondo la Arendt. Quella verità tradita soltanto da frasi pompose ed altisonanti in cui ritrovava la sua esaltazione. Neppure sembra accettabile che giudici ebrei, per quanto avvezzi a giudicare senza farsi coinvolgere dai propri sentimenti potessero giudicare obiettivamente chi aveva contribuito alla "soluzione finale", anche perché, inconsapevoli, secondo il senso del rilievo fatto dalla difesa, di quale problema costituissero gli ebrei per il mondo secondo quel regime. Eppure Eichmann affermava di essersi formato presso i sionisti e quindi che i suoi giudici fossero ebrei poteva non essere contraddittorio. Da questi profili discendono specifici rilievi:

3.1) Dal punto di vista del diritto positivo i burocrati di Hitler non potranno mai essere condannati perché hanno soltanto eseguito gli ordini, e quindi hanno rispettato la legge, facendo il proprio dovere (come ricordo sin dalle lezioni di diritto costituzionale all'Università). Eichmann non era altro che un impiegato che doveva riempire dei convogli e metterli in partenza: una volta partito il convoglio il suo compito era terminato. Era a capo di un ufficio che solo ufficialmente era l'unico deputato allo sterminio, mentre, in realtà, col passar del tempo sempre più istituzioni e l'esercito, organi indipendenti da Eichmann, facevano a gara nel contribuire alla "soluzione del problema ebraico": parte dello sterminio fu attuato da battaglioni speciali onde prepararli a particolari azioni di polizia in Russia e questi razziavano ebrei come zingari o malati di mente; chi gestiva le camere a gas si rivolgeva direttamente al gabinetto di Hitler dove era nata molto prima della guerra l'idea di una "soluzione finale" a danno degli ebrei e di tutti i "deboli" della Germania: vigeva l'idea dell'eutanasia come morte pietosa agli incurabili, privilegio riservato ai soli tedeschi, giacché gli altri venivano passati per le armi.

3.2) Il sistema nel suo complesso era congegnato e messo a punto dai generali era così frammentato da fare in modo che nessuno fosse cosciente del disegno complessivo, ma che ciascun ufficio eseguisse un segmento di quello che oggi sappiamo essere stato il più grande orrore della storia dell'umanità. Come abbiamo accennato, l'imputato non era riuscito, è provato e lo racconta egli stesso con rammarico, a fare carriera al punto da far parte degli alti ranghi che avevano il controllo dell'intero disegno, anche se si vantava di esserne il fautore. Ne fu messo al corrente soltanto a guerra iniziata e la sua colpa, alla fine, è solo quella di essere stato consapevole, da un certo momento in poi, di quale fosse il destino dei concentrati in alcuni campi più "efficienti" come Aushwitz.

3.3) L'ultima carica conseguita l'ottenne per essersi dimostrato "esperto di questioni ebraiche":  prima che iniziasse la soluzione finale, a favore del popolo inviso in Germania e considerato avversario ed i cui diritti civili erano già stati compressi per legge, si rese autore di un efficientissimo centro per l'emigrazione convinto di dover dare a quel popolo una terra su cui posare i piedi fuori dalla Germania, per esempio in Polonia o in Madagascar. Giacché i documenti da procurarsi per l'espatrio, costringevano a rivolgersi a diversi uffici ed avevano tempi tali che ottenuto l'ultimo permesso necessario per l'espatrio il primo fosse scaduto, creò un centro che raggruppava tutti gli sportelli sparsi in diversi uffici istituzionali e che consentiva ad un ebreo di entrare in un ufficio ed uscirne alla fine della trafila con o senza beni (a seconda che fosse ancora valido l'accordo del trasferimento dei beni in Palestina) reso apolide e privato dei suoi beni ma con un passaporto valido. E ciò con il consenso e l'approvazione delle alte cariche delle comunità ebraiche in fuga dalla Germania dalle quali raccolse un parere positivo previa ispezione. Ciò deve aver colpito molto la Arendt che addita le comunità ebraiche come corresponsabili. Il progetto di creare un protettorato in Polonia o in Madagascar era impedito dall'incalzare della guerra e dal controllo inglese delle rotte del mediterraneo, quindi le alte cariche erano già dell'idea di provvedere allo sterminio. 

3.4) Prima dello sterminio diede vita ad accordo in base al quale erano gli stessi capi delle comunità ebraiche a selezionare gli ebrei migliori da avviare all'espatrio verso le fattorie in Palestina, spesso in modo illegale, perché ostacolati dagli inglesi, in modo che si possa affermare che i capi delle comunità ebraica collaboravano attivamente alla deportazione e che gli ebrei non prescelti dai propri capi avevano come nemici sia i tedeschi che gli inglesi. Era il Consiglio Ebraico degli Anziani, infatti, a comporre i convogli in partenza e comunque non fu mai Eichmann o personale del suo ufficio a fare le selezioni; i singoli compilavano moduli su moduli dettagliando i propri beni per favorire il sequestro e chi si opponeva o nascondeva veniva ricercato da uno speciale corpo di polizia: ebraico! Senza questa collaborazione dei capi ebraici con il nazismo, intervenuta anche con Eichmann, in età di emigrazione e di evacuazione, i pochi funzionari alla scrivania non avrebbero potuto fare tanto, tutto ciò di cui sappiamo.

3.5) Il nazismo ha corrotto coscienze in Europa anche tra le vittime. Ogni governo-fantoccio era infatti affiancato da un ufficio centrale ebraico in regime di collaborazione. Successivamente, l'Associazione ebraica di Berlino strinse un accordo per l'acquisto della residenza a Theresienstadt con ciascun deportato, che cedeva i suoi averi all'Associazione in cambio di alloggio, vitto, vestiario ed assistenza medica a vita. Beni che furono poi confiscati all'Associazione dai nazisti. Qui, sconvolge la Arendt: il popolo ebraico era privo di esercito e gioventù militarizzata ma guidata da capi riconosciuti: <<se il popolo ebraico fosse stato realmente disorganizzato e senza capi ci sarebbe stata dovunque caos e disperazione, ma le vittime non sarebbero state sei milioni>>. Degli ebrei fuggiti ai nazisti e ai Consigli ebraici se n'è salvato infatti il 40-50%. In Belgio, infatti, in assenza di Consigli ebraici molti ebrei riuscirono a fuggire anche grazie alle imboscate della polizia e dei ferrovieri Belgi; in Danimarca, durante il capodanno ebraico i Consigli avvertirono la popolazione ebrea che trovò rifugio per nascondersi in ogni casa, dal re all'ultimo cittadino Danese (furono infatti i cittadini Danesi a pagare la deportazione dei loro connazionali ebrei non abbienti); il capo-rabbino di Sofia si rese irreperibile ai nazisti. Ancor più deleterio fu il fatto che il Consiglio degli anziani, in Germania, chiedendo trattamenti d'eccezione per singoli casi, che venivano puntualmente concessi, confermasse e rafforzasse in tal modo la validità della regola nazista.

3.6) Eichmann disubbedì solo una volta agli ordini destinando venticinquemila persone tra ebrei e zingari al ghetto di Lòdz invece che ai campi in territorio russo già attrezzati per lo sterminio. Si rammaricava soltanto di aver schiaffeggiato un ebreo in una singola occasione come "confessò" in istruttoria, per il resto si riteneva non colpevole nel senso dell'atto d'accusa per aver soltanto eseguito degli ordini.


3.7) Gli scampati alle deportazioni rappresentavano circa il 20% della popolazione di Israele e tra questi tutti fecero a gara per essere accreditati come testimoni. Raccontavano spesso circostanze avulse dalla realtà, di aver visto Eichmann ove non era mai stato e, nonostante vi fosse stata una "scrematura" tra chi si candidava a testimoniare, dai 15 o 20 previsti in aula sfilarono in aula 56 testimoni. In 23 udienze su 121 ci si concentrò su quello che la Arendt chiama "lo sfondo" ovvero il fenomeno nel suo intero che poco aveva a che vedere con il caso specifico di cui si stava occupando il processo. Eppure l'imputato non aveva svolto alcun ruolo nelle zone orientali, né aveva contestato i fatti rappresentati dall'accusa, affermava soltanto non essere frutto della sua responsabilità. La sentenza, nella quale si giustificò invece tale attenzione ai testimoni per aver l'imputato contestato le accuse, rifiutò la fondatezza delle testimonianze non suffragate da altre prove anche perché, sebbene esse riferissero circostanze ormai note da tempo sul sistema, quanto si voleva imputare ad Eichmann sembrava il frutto di un pettegolezzo, un sentito dire privo di fondamento giuridico. 

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4) La Arendt in quanto filosofa non si lascia coinvolgere dall'analisi del comportamento dell'imputato da un punto di vista morale: esamina il pensiero. L'imputato è persona vuota e banale che ha rinunciato al pensiero al cospetto degli ordini da eseguire, ha rinunciato a quel colloquio con se stesso che è il pensiero secondo le teorie che risalgono a Socrate, a Platone. E' intimamente incoerente con tratti a volte comici: asserisce di non voler giurare perché è vittima del rispetto del giuramento fatto al Fuhrer e poi giura in tribunale per dare il massimo peso alla propria deposizione; afferma che avrebbe ucciso suo padre se si fosse dimostrato che era un traditore e poi di non aver giurato alla Germania ma ad Hitler, e che pertanto alla morte di questi chi avesse giurato era poi da considerarsi "esonerato"; si dichiara innocente ma poi sottoscrive una richiesta di grazia; ammette che il nazismo è frutto del comportamento umano, non della forza del destino.

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5) Le testimonianze si dilatarono molto sul disegnare il "quadro generale", come desiderava l'accusa, ma non si riconobbe l'immunità a tedeschi ex nazisti che avessero voluto intervenire al processo. La difesa era impossibilitata ad esaminare gli innumerevoli documenti presentati dall'accusa e poteva basarsi solo su quelli, non essendo organizzata a svolgere ricerche proprie, era impossibilitata a controinterrogare giacché si fece uso delle testimonianze raccolte al processo di Norimberga o comunque in altri processi, i testimoni si erano tutti presentati spontaneamente. Dalle testimonianze risultò che in Polonia, ove Eichmann aveva esercitato maggiormente il suo potere, le cose andarono meglio che in altri paesi, e che nessuno ritenne possibile ribellarsi, perché il sacrificio sarebbe stato vano e destinato all'oblìo, eppure un criterio sovrumano detta che il sacrificio non sarebbe stato inutile in funzione della rettitudine morale e della memoria che sarebbe comunque arrivata alla moltitudine dei contemporanei ed ai posteri.

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6) La sentenza rischiò di non accettare la tesi dell'accusa perché: sebbene Eichmann sapesse cosa si perpetrava a danno degli ebrei, questo non era frutto della sua diretta responsabilità; era solo un esperto di trasporto ed emigrazione eppure esserne a conoscenza fu ritenuto sufficiente dai giudici per affermare la sua responsabilità.

6.1) L'evacuazione dai ghetti polacchi fu attuata dalle S.S. e dalla polizia e non fu opera diretta di Eichmann che pur era preposto ad organizzare il trasporto degli ebrei, tanto che il fatto che tutti gli ebrei mandati ad Auschwitz fossero stati estradati da lui era quanto meno dubbio ed in dubbio pro reo...;

6.2) Gli ebrei deportati (e tra questi i criminali erano trattati meglio degli altri) erano il frutto degli elenchi predisposti dai Capi ebraici e non da Eichmann;

6.3) Gli ebrei ritenuti abili al lavoro (il 25%) che quindi potevano vivere erano frutto di una selezione svolta dalle S.S. in merito alla quale Eichmann alcun potere, giacché non aveva l'autorità per decidere chi doveva vivere o morire, sosteneva infatti di non aver mai condannato a morte un uomo, ebreo o non ebreo che fosse;

6.4) Eichmann era stato edotto delle condizioni dei vita dei ghetti e della decisione di "terminarne" gli occupanti ma non aveva emanato ordini in merito e soprattutto non aveva poteri esecutivi in Oriente dove la sorte egli ebrei polacchi era stata decisa da tempo dal Fuhrer, sin dal 1937 quando sognava un territorio libero in cui insediare i tedeschi ed avrebbe quindi comminato la sorte prevista per gli ebrei anche ai polacchi già contraddistinti come gli ebrei da un contrassegno.

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7) Alla fine di questa analisi c'è l'uomo: l'uomo essere pensante che rinuncia alle sue prerogative di essere pensante e diventa ingranaggio di un meccanismo che ha già travolto la coscienza, insita in ogni essere umano. Prima che venisse ordinato lo sterminio egli aveva addirittura accolto con entusiasmo i suoi incarichi e si era prodigato con senso di umanità a favore dell'espatrio degli ebrei in paesi non ostili, pur se sognando un ampio territorio per un protettorato sotto il suo controllo, ad esempio in Polonia, dove rimase a capo del centro di concentramento per ebrei di alto rango, l'unico in ci fu ammessa anche la croce rossa internazionale, ma di ciò non ricorda nemmeno egli stesso; uomo che ha memoria soltanto per gli eventi che gli hanno conferito uno stato di esaltazione. In tale stato di esaltazione dichiarò a non essersi opposto ad essere giudicato da quel tribunale per alleviare i sensi di colpa della gioventù tedesca. Aveva una coscienza che funzionò a dovere soltanto per due settimane, sebbene soltanto in relazione ad ebrei tedeschi, per il resto, essa gli diceva di dover obbedire ad Hitler per il solo fatto che da caporale era diventato acclamato Fuhrer di una nazione di ottanta milioni di persone. Quando poi ebbe accesso a cariche esecutive, dimenticò gli anni di collaborazione con le comunità ebraiche per favorire il loro espatrio e si presentò ai loro capi come un signore della vita e della morte che ordinava come eseguire il piano di "emigrazione forzata". E allora dell'uomo non resta niente: l'uomo annientato dall'ideologia che nega l'emotività, ove quindi non v'è atrocità né delitto da condannare ma soltanto lo spazio per la commiserazione di un essere che è decaduto ad uno stato animale inferiore per essersi reso ubbidiente. Un Ponzio Pilato, liberato da ogni peso dalle decisioni dei suoi superiori e dal consenso della massa; un soggetto non più umano inidoneo ad essere imputato di un processo; i resti di un soggetto devastato nella sua coscienza da un'ideologia che l'aveva messa a tacere, e che lo obbligava ad eseguire ordini sgraditi vivendo una sorta di dissociazione tra il suo essere e quanto il suo lavoro lo costringeva suo malgrado a fare. Un essere banale, banalmente servo del potere, banalmente esecutore del male: non la spietata mente assetata di morte che presenta l'accusa. <<Il suddito di un governo buono è fortunato, il suddito di un governo cattivo è sfortunato; io sono stato sfortunato>>, disse ai giudici. Gli ordini di Hitler tramite Himmler, Heydrich, Muller, giungevano al suo ufficio IV-B-4 per essere eseguiti in via amministrativa, e lui li eseguiva. <<Il coraggio civile avrebbe dovuto avere una struttura gerarchica>>, dichiara Eichmann al processo. <<Avuto cognizione degli ordini di procedere allo sterminio (dopo vari anni che le alte sfere lavoravano in questo senso n.d.r.) persi tutto l'interesse a lavorare, mi sgonfiai>>. Raccontò poi di essere stato messo al corrente del metodo adoperato di "camion a gas" ma di essere stato inorridito dal solo racconto, ancor prima di aver visto con i suoi occhi una esecuzione con le armi o a mezzo asfissia. Ciò nonostante, scomodando a suo modo finanche la critica della ragion pratica di Kant, spiegò che con l'ordine di attuare la soluzione finale gli venne impedito di agire secondo i principi che aveva appreso, ovvero finì col ricercare come principio ispiratore lo stesso volere del Fuhrer codificato in legge o espresso, in maniera ancor più incisiva, nelle sue parole, nelle parole del legislatore. Fu così che quando, prevedendo la disfatta, i capi delle SS. ordinarono comportamenti protettivi nei confronti degli ebrei (e divennero nazisti "moderati", afferma con chissà quanta ironia la Arendt, ancorché corruttibili), egli, che apparteneva ad altra gerarchia, rimase fedele nel suo giuramento all'idea del Fuhrer e applicò quella inflessibilità nell'esecuzione della volontà del Fuhrer al quale aveva giurato, che gli permettesse di restare estraneo alle decisioni. Allo stesso modo si tenne sempre estraneo alle trattative delle SS., divenute moderate, ed ormai inaffidabili agli occhi del Fuhrer, che esse stavano svolgendo in Ungheria scambiando la fuga all'estero degli ebrei con donazioni in denaro, per precostituirsi un alibi agli occhi dei prossimi vincitori e delle quali sabotò gli ordini di proteggere gli ebrei perché fossero usati come merce di scambio. Eichmann divenne come quel soldato che si rifiutava di applicare ordini che apparivano illegittimi in una realtà in cui i valori erano invertiti incarnando l'obbedienza all'ordine dello sterminio che era legge, alla volontà del Fuhrer-legislatore, contro i traditori delle SS. E' singolare che, a suo modo di vedere, lo sterminio si rese necessario perché i paesi stranieri non erano disponibili ad accogliere gli ebrei, <<non si riusciva a trovare terra da metter loro sotto i piedi>>, come se esistesse un popolo pronto ad accogliere poveri stranieri, ebrei o non ebrei, privi di passaporto e che non conoscono la lingua nazionale.






Giulio della Valle

lunedì 22 febbraio 2016



Pregiudizio ed errore giudiziario

Pregiudizio ed errori giudiziari


 A.A.V.V. per la scuola forense di Napoli



L'osservatorio sui diritti umani della Scuola Forense di Napoli valuta tutte le forme di discrimine pregiudiziale.

Le condizioni di censo, allorché un cittadino viene discriminato per essere troppo visibile alla pubblica opinione e quindi soggetto alla pressione dei pregiudizi che questa frettolosamente emette ancor prima che abbia inizio il processo vero e proprio così come previsto dal nostro ordinamento e che può permettersi ogni forma di difesa attuabile anche al solo scopo di allungare i tempi di una condanna certa.



Le vicende che vedono il cittadino economicamente impreparato a ricorrere a tutti i mezzi di difesa a propria disposizione o costretto a depauperare il proprio patrimonio economico per far fronte agli oneri economici derivanti dal ricorso ai propri strumenti di difesa contro una realtà processuale malformata.



Gli orientamenti sessuali, laddove un orientamento omosessuale del cittadino lo allontana dalla prefigurazione cristallizzata nella norma che comprende e giustifica determinate pulsioni dell'animo umano e non ne comprende e giustifica altre sessualmente diversamente orientate.

Le differenze di cultura dovuta all'appartenenza ad una razza ed etnia minoritaria nel nostro paese e che attiene al professare una religione diversa da quella maggioritaria nel nostro paese, un tempo religione di Stato, o una religione diversa da quelle stesse riconosciute dal nostro ordinamento giuridico.

Tutte queste condizioni pregiudiziali vestono un soggetto di abiti che lo rendono estraneo o poco riconoscibile a pieno come cittadino agli occhi dell'ordinamento giuridico e quindi rendono difficoltoso, nella pratica, vedere applicate fino in fondo le garanzie che ad esso sono dovute, nonostante che la lettera della norma Costituzionale vieti specificamente di limitare le garanzie in base ad alcune condizioni personali, economiche e sociali. l fatti ci dicono che l'appartenenza ad alcune specifiche categorie, ancorché nominativamente tutelate dalla nostra norma primaria, rendono più facilmente verificabile l'errore giudiziario.

l lavori promossi all'interno del gruppo analizzano il tema dell'errore giudiziario alla luce delle possibili forme di discriminazione e ne hanno quindi affrontato le possibili cause e le nefaste conseguenze.

La stessa autorità giudiziaria si confronta con le esigenze che il procedimento giudiziario chiede essere soddisfatte allorché si trasferisce la realtà storica negli atti giudiziari. Quando questa operazione non riesce correttamente e l'evento storico non viene trasfuso in modo preciso e lineare negli atti del procedimento, l'autorità giudiziaria si trova nella difficoltà di districarsi tra due diverse rappresentazioni della realtà: l'una, quella che si può intuire ed evincere durante lo svolgimento del processo, anche contro quanto risulta in atti versato, l'altra quella rappresentata negli atti processuali sui quali, soltanto, il giudice deve determinarsi.

Le cause dell'errore possono essere le più varie e pertanto si è svolta un'analisi approfondita di tutti gli elementi che possono influenzare la trasfusione della realtà nel procedimento.

Le circostanze di fatto in cui si è verificato un evento e i possibili elementi che influenzano la corretta lettura di un accadimento; la tecnica investigativa adottata cui conseguono risultati formalmente corretti ma fattualmente errati allorché privata degli elementi di garanzia previsti, laddove non osservati, in una prassi non ossequiosa del protocollo; la notorietà e la fama guadagnata sul campo  in  un determinato momento storico, che, favorendo un minore controllo del rispetto formale della procedura, possono concorrere, come hanno concorso, alla determinazione erronea dapprima del Pubblico Ministero e poi dei Magistrati Giudicanti.


Tutti questi elementi sono presenti nella tormentata e famosa vicenda giuridica sfociata nella condanna definitiva di Daniele Barillà.

ll caso scelto infatti è quello emblematico, di una condanna reiterata nei tre gradi di giudizio, la cui stessa esistenza è garanzia di controllo, seguita da una revisione del processo cui è conseguita un'assoluzione piena ed un risarcimento del danno, da parte dello Stato a favore del cittadino leso, per un importo significativo se non addirittura sorprendente.

Lo Stato condanna, lo Stato assolve e risarcisce.

ll mancato rispetto dei vincoli procedurali ha creato una realtà processuale ben diversa da quella fattuale, formalmente corretta e sostenibile, ancorché credibile logicamente, ma del tutto avulsa dalla realtà. La meritoria attività degli investigatori e l'ottimo rapporto di fiducia con il magistrato inquirente offuscheranno irrimediabilmente le deduzioni che si possono evincere dagli atti processuali e che soltanto quella forma di umana intuizione di cui è privo l'ordinamento giuridico consentirà di comprendere l'esigenza di riproporre ex-novo il processo Barillà.

Se, quindi, è giusto chiedersi come possano cadere in errore i numerosi giudici che hanno condannato nei tre gradi di giudizio previsti dal nostro ordinamento per garantire una valutazione che sfugga all'emotività collettiva del momento, è anche il caso di considerare se un successivo risarcimento pecuniario possa ripristinare adeguatamente lo status quo ante, alla luce del degrado psicofisico di un soggetto compromesso definitivamente dalle conseguenze dell'ingiusta condanna.

La vicenda umana che consegue all'errore giudiziario è infatti sempre la condanna ad un ingiusto calvario nel corso del procedimento stesso, e la sua lungaggine, anche ove prescritta per garantire l'imputato, di fatto, aggrava questo peso.

L'ímputato subisce spesso una serie di comportamenti dettati dal presupposto della colpevolezza, lo scherno e la gogna della comunità cui appartiene a fronte di un'accusa per la quale sono tutti pronti a dubitare della sua onestà e buona fede.

ll cittadino indiscutibilmente gode di una diversa possibilità di successo nel vedere affermata la propria tesi o, ancor più, di essere ascoltato e ritenuto credibile dall'autorità giudiziaria, in base alle proprie condizioni di censo, alla propria classe sociale, alla fama e notorietà di cui gode.

Ci si è chiesti, infine, se un risarcimento economico è in grado di ripristinare tutte le conseguenze che subisce la vittima di un errore giudiziario. A tal fine si è esaminata la sentenza di valutazione pecuniaria del danno non patrimoniale per la quale la Corte è ricorsa a criteri equitativi, dapprima tripartito in danno morale, biologico ed esistenziale e successivamente bipartito in danno morale e danno biologico, Nella vicenda che presenteremo, il risarcimento, ancorché significativo dal punto di vista pecuniario, non riuscirà a risollevare un cittadino leso dallo stato patologico in cui è rovinosamente precipitato un soggetto ingiustamente accusato a seguito di tale dolorosa vicenda e ad offrirgli i mezzi idonei per ridare luce alle sue originarie caratteristiche personali. 

Giulio della Valle